Anche a Verona la regola del massimo profitto, che però non paga

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La crisi sanitaria innescata dal Coronavirus ci spinge non solo a chiederci perché non avevamo le mascherine necessarie a proteggerci ma mette anche in discussione alcune scelte urbanistiche che contrastano con la salute dei veronesi.

Alcune conseguenze dell’attuale crisi dovuta al Coronavirus sono certamente figlie anche di quella spasmodica, e alla lunga controproducente, folle rincorsa economica al massimo guadagno. Non stiamo dicendo che non si debba cercare il giusto profitto, quel profitto ridistributivo e rispettoso del bene comune che è la molla spesso utile e necessaria per il miglioramento delle condizioni generali della vita. Stiamo  piuttosto parlando di quella scomposta ricerca del massimo profitto possibile che è stata, ed è tuttora, il criterio di molte, troppe scelte economiche, imprenditoriali,  sociali e politiche della nostra epoca.

Con questa logica si è esternalizzato, delocalizzato e oggi ne paghiamo tutti le conseguenze, anche chi pensava solo a lucrare. Sarebbe interessante, per fare un semplice e concreto esempio, capire come mai non vi erano più in Italia aziende produttrici di mascherine facciali: forse che non vi fossero le competenze tecnologiche per produrle? Certamente la risposta è un’altra: «costava meno farle fare in Cina, Bangladesh, Taiwan, ecc.». Ma quanti medici e infermieri in meno sarebbero morti, e in generale, quante vite umane avremmo potuto risparmiare, se avessimo da subito potuto disporre autonomamente di tali dispositivi?

Il Vangelo ci insegna a tutelare la vita umana all’inizio ed alla fine del suo percorso naturale, ma ci chiede anche di impegnarci a tutelarla con scelte lungimiranti, eque e compatibili, con uno sviluppo sostenibile nel tempo e rispettoso dell’ambiente (di nostra madre terra, direbbe l’ammirabile, umile e pur grandissimo San Francesco, patrono d’Italia).

E se guardiamo ancora più concretamente attorno a noi, nelle belle (centri storici) e pur martoriate città (periferie) d’Italia, come non riconoscere la stessa scellerata rincorsa al massimo profitto?  La nostra bella Verona non è affatto immune da questo deleterio fenomeno. Come si spiegherebbe diversamente un credito di verde, accumulato negli anni, che supera ormai i due milioni di mq? Come si spiegherebbe  l’aver sottratto, solo a Verona Sud, la bellezza di 800.000 mq di verde di mitigazione e servizi?

Come si è potuto, se non per la bramosa ricerca del massimo profitto, aprire centri commerciali a iosa senza richiedere la doverosa e preventiva realizzazione del dovuto verde di mitigazione? Come ha potuto un’Amministrazione  comunale, il cui principale compito dovrebbe essere quello di tutelare la vita dei cittadini, concepire delle norme tecniche che hanno permesso di fatto il “furto” del verde e della vivibilità?

Come, se non per la medesima ricerca del massimo profitto, si è potuto concepire di realizzare un parcheggio per la Fiera di Verona nell’ambito della cosiddetta riqualificazione dell’ex Manifattura Tabacchi? Ovvero, come è possibile decidere consapevolmente di portare in un contesto urbanisticamente già al collasso ulteriori centinaia e centinaia di auto, per poi raccomandare ipocritamente ai cittadini di non usare la macchina nei giorni di fiera?

Ecco solo alcuni esempi di come si è declinata anche nella nostra società la regola del massimo profitto, con conseguenze che hanno sicuramente un impatto sulla salute dei cittadini. Ora non ci resta che sperare, dopo aver pianto i morti, che i terribili eventi di questi giorni possano almeno insegnare a tutti noi, e soprattutto agli amministratori pubblici e ai  decisori politici, come far convivere correttamente sviluppo economico e sostenibilità, nel rispetto della vita e dei valori umani e sociali.

Enrico Marcolini

Articolo pubblicato su VeronaIn

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